#95

Indice

Nello scorso numero di WP...
Renzo Beltrame

Ricordi e riflessioni su Silvio Ceccato (un appunto)
Francesco Ranci

In memoria di Silvio Ceccato
Felice Accame

Il bidone estetico
Felice Accame

Notizie
Nello scorso numero di WP...
Renzo Beltrame

Nello scorso numero di WP, Felice ha inserito la sua relazione annuale, molto seria ed estremamente stimolante. Somenzi, nella sua prefazione al Quaderno di Methodologia che è in stampa, ha sollevato a sua volta un'altra serie di stimolanti notazioni. Penso vi sia materiale per aprire un serio dibattito a più voci, tenendo anche conto della discussione che ha accompagnato gli interventi a Rimini, e questo è un mio primo contributo.
Circa il debito verso Ceccato, credo di essere tra coloro che ne hanno contratto uno davvero notevole. Gli debbo semplicemente la mia formazione professionale, quali che siano le mie personali capacità. Gli debbo poi i risultati di una critica e un impianto costruttivo che alle mie forze non sarebbero bastate due vite per costruirli. Il resto, molto, che mi ha dato come persona, lasciatelo, vi prego, alla mia malinconia. La sua perdita è stata veramente grande.
Occorre continuare, e personalmente sono piuttosto strettamente ancorato ai seguenti punti di vista:

1. Abbiamo i risultati della critica al conoscere che costituiscono una acquisizione molto stabile e collaudata. Questi sono la premessa per operare costruttivamente superando alcune contraddizioni altrimenti difficilmente evitabili, ma non garantiscono alcun risultato e, soprattutto, a mio avviso non si configurano come una disciplina.
2. La costruzione di una teoria dell'operare cognitivo dell'uomo ci ha visti intensamente impegnati, con Ceccato in primissima linea e di gran lunga come leader, negli anni '60. I risultati sono condensati nelle splendide pagine introduttive al secondo volume di Un tecnico tra i filosofi, e in A model of the mind. Di quel momento voglio sottolineare che ciò a cui si era arrivati apparve, a tutti coloro che ci lavoravano, un modello e non una teoria. La distinzione non è affatto secondaria e gli scritti di quegli anni mostrano una precisa consapevolezza su questo punto.
3. Ritengo che la costruzione di una teoria dell'operare cognitivo dell'uomo, e sottolineo una teoria e non un modello, resti per noi ancora oggi la sfida centrale attorno a cui ruota tutto il resto. Ceccato in un momento che non mi riesce di datare con certezza, ma che direi sicuramente precedente l'inizio della contestazione giovanile del '68, di ritorno da un viaggio negli USA decise di dedicarsi principalmente alla presentazione e alla diffusione della critica al conoscere. Ricordo perfettamente che la sua decisione fu estremamente lucida, e consapevole anche delle conseguenze che ciò comportava, prima fra tutte l'impossibilità di portare avanti sistematicamente gli aspetti costruttivi che la critica al conoscere aveva aperto. Mi disse tra l'altro con molta fermezza che non vedeva in questa opera di diffusione della critica al conoscere spazi per una persona della mia età, e sono convinto, ancora più a distanza, che avesse profondamente ragione.
4. Contributi in direzione costruttiva sono stati dati da allora sia da Ceccato stesso che da molti altri, primo fra tutti Vaccarino. Ma ciò che mi sembra oggi cruciale è un ripensamento del modello dell'attività mentale a cui facciamo riferimento. Il modello di quegli anni risente di uno stadio delle conoscenze, soprattutto di fisiologia ma anche di ingegneria, che sostanzialmente è riferibile agli inizi degli anni '60, né potrebbe essere altrimenti. La mia personale opinione è che su quel modello ci siamo adagiati troppo a lungo soprattutto a fronte di una biologia che nel frattempo è diventata semplicemente un altro pianeta.
5. La sfida mi sembra sia portare il fuoco dell'indagine sulle cause. Ridando tra l'altro libertà alla scelta delle definizioni e dei paradigmi, troppo spesso presentati come analisi, e spostando il criterio di validità sulla loro utilità per costruire un sistema di conoscenze che consenta di formulare predizioni affidabili. A posteriori si può trovare traccia di questi problemi nelle cautele con cui erano presentati gli atteggiamenti nella "Macchina che osserva e descrive". La cosa, allora, mi mise in crisi. Ma non mi accorsi che bisognava pensare come definizioni, o paradigmi, ciò che pensavo come analisi. Le difficoltà pratiche nel condurre esperimenti ripetibili in psicologia e soprattutto le mie scarse capacità fecero il resto. E mi fermai.
6. Tra i cambiamenti nelle discipline tradizionali non è in gioco soltanto la biologia, ma anche cambiamenti di orizzonte all'interno di altre discipline. E questi toccano le possibilità di interventi a carattere epistemologico in campi come la fisica o la matematica. Consentitemi di indicare, molto semplicemente e senza pretese, alcuni fatti in cui mi sono imbattuto e che mi sembrano molto significativi:
· La fondazione autonoma della meccanica dei continui, che ha quale punto di partenza non più la nozione di elemento materiale, chiuso e limitato, che si muove in uno spazio, ovviamente privo di materia. Ha invece la nozione di densità, o più in generale di distribuzione, che a sua volta ha come presupposto l'estensione e non il punto. Questi sviluppi hanno tra l'altro ridotto l'interesse per la problematica onde-corpuscoli, che in questa prospettiva tende a diventare prevalentemente un problema di storia della scienza. Si colloca invece in posizione di rilievo la teoria quantistica del campo e le sue applicazioni.
·La fondazione autonoma della meccanica dei continui, a mio modo di vedere, ha analogie con la questione se in matematica si debbano avere due schemi diversi per il discreto e il continuo, e quindi se nell'introduzione dei numeri reali non si introducano anche proprietà, non opportunamente sottolineate, che vietano di trasferire banalmente, cioè senza verifica, da un dominio all'altro risultati ottenuti appoggiandosi ai numeri reali, e agli interi o ai razionali (un numero reale funziona per individuare un punto o ne dà una individuazione approssimata? Oppure, una topologia sull'insieme dei numeri reali è una topologia basata sui punti o sugli intervalli?).
·In chimica si va facendo strada la tendenza a considerare una reazione come un processo esteso nel tempo, la cui dinamica è analizzata avvalendosi della meccanica quantistica. La questione ha risvolti notevolissimi sulla cinetica chimica e su ciò che causa una reazione chimica oltre alla tradizionale presenza dei reagenti (catalizzatori compresi). I risvolti in biochimica, dove si ha a che fare con molecole complesse, sono notevolissimi, valga per tutti il ruolo delle fluttuazioni nell'indurre l'attivazione di un sito in una molecola. Trattando questi fenomeni non è accettabile considerare il sistema in equilibrio e occorre quindi lasciare da parte la termodinamica classica. La cosa è di interesse generale, perché vi è speranza di ulteriori sviluppi nella formalizzazione e in una teoria generale dei processi, troppo spesso lasciata da parte in nome di calcoli che funzionano anche se si pensa in termini di transizioni di stato.
·Infine la frequenza con cui oggi siamo portati a scartare schemi costruttivi basati su leggi di composizione lineari, spinti in questo dai risultati degli esperimenti che siamo in grado di fare. Da un punto di vista metodologico questo porta a ridurre drasticamente la portata dei procedimenti deduttivi in favore della verifica sperimentale sul campo. Infatti solo con leggi di composizione lineare le proprietà del composto sono per definizione le stesse dei componenti, nel caso del non lineare può succedere di tutto, e la decisione spetta soltanto all'esperimento o all'osservazione nel modo fisico, e alla verifica dell'estendibilità degli assiomi nel mondo delle matematiche.

P.S.: A proposito di riprendere la pubblicazione su carta di Methodologia, il mio parere è che non convenga tornare ai problemi che impone tenere aperta una seria rivista. I Quaderni mi sembrano un'iniziativa molto più facile da gestire, proprio perché impongono agli autori un impegno più deciso, che giustifica l'avere il materiale su carta. I Quaderni con contributi di più autori, come l'ultimo, sono molto accattivanti, e andrebbero incoraggiati. Per "Studi sul pensiero di Silvio Ceccato" penserei decisamente ad un Quaderno.
Per una rivista e per i WP continuo a ritenere ideale Internet, che si sta avviando ad una espansione capillare anche in Italia. Incidentalmente, conserviamo l'ISSN di Methodologia anche per la collana dei Quaderni.torna all'indice

Pisa 9 aprile 1998

Ricordi e riflessioni su Silvio Ceccato (un appunto)
Francesco Ranci

Quando incontrai Silvio Ceccato di persona per la prima volta, credo nel 1982, in occasione di una sua conferenza presso la scuola superiore che frequentavo, non avevo ancora letto nulla dei suoi scritti e quasi nulla sapevo delle sue idee. Il prof. Ennio Valeri, incaricato delle lezioni di "pedagogia", l'aveva invitato a parlare come autore de "Il maestro inverosimile", ma avevo iniziato a seguire Valeri da pochi mesi.
Oggi non ricordo niente di ciò che Ceccato disse, ma penso che mi fece riflettere profondamente la radicalità delle sue osservazioni sulla insensatezza di ciò che si insegna comunemente ai bambini delle elementari (le definizioni in negativo come "il punto è un'ente senza dimensioni", le metafore come "il soggetto si sposa col verbo", le contraddizioni come "le parallele che s'incontrano all'infinito") e sulla violenza con cui si impone la ripetizione ebete di tali nozioni nelle scuole. Ricordo cher fui decisamente incuriosito, e del tutto convinto di aver trovato un alleato nella lotta contro il sistema scolastico tradizionale - lotta che faceva parte già del mio patrimonio di valori dai primi anni delle elementari (la maestra mi aveva soprannominato "il contestatore", d'altronde erano i primi anni '70 e si parlava molto di "contestazione").
Alla conferenza di Ceccato, tuttavia, era emersa anche una freddezza, se non ostilità, da parte di molte persone che conoscevo e stimavo. Questo fatto, da un lato, mi preocupava, ma, dall'altro lato, veniva a sanare l'incongruenza fra la dichiarata "sperimentalità" del metodo scolastico scelto da quella scuola - al prezzo di una dura battaglia politica col Ministero cui avevo dato il mio modestissimo ma entusiasta contributo - e la sua praticata conformità alle consuetudini scolastiche, da molti oltre a me vissuta con sofferenza e a volte persino lamentata a denti stretti.
Ceccato, dunque, colpiva direttamente il bersaglio. Aveva argomenti solidi, ancor più distruttivi di quanto uno si sarebbe mai potuto aspettare, contro il "nozionismo", e aveva argomenti convincenti, anche qui straordinariamente, a favore della partecipazione attiva" dello studente - non era un fatto di operazioni da laboratorio, ma di operazioni mentali! Oggi, mi si perdoni, rileggo la storia in questo modo. Credo che la mia impressione fosse giusta. E che Ceccato abbia dato un senso originale alla via democratica - capace di rispettare le differenze di opinione - all'insegnamento (e non solo a quel particolare tipo di interazione, ovviamente).
La lettura del "Il punto", nuovo titolo dato al libro in occasione della ripubblicazione con un editore diverso (edizione i cui profitti avrebbero dovuto essere devoluti alle vittime del terremoto in Irpinia), non fu facile né per me, che ero ben disposto, né, tantomeno, per i miei compagni. Lasciava perplessi l'idea che i bambini, pportunamente sollecitati da Ceccato a collaborare ad un progetto di costruzione della "macchina pensante", e poi edotti sul principio di analisi da applicare, riuscissero a percepire i propri "stati attenzionali", costitutivi delle categorie che stavano analizzando (mentre le stavano usando, o subito dopo averle usate). E tuttavia mi convinsi. E all'esame di maturità, sorprendendo anzitutto me stesso, mostrai alla commissione il palmo della mano invitandoli a percepirlo prima come "spaziale" e poi come "temporale" - notando come nelle operazioni costitutive dello "spazio" all'attenzione applicata su se stessa (per definire come "cosa" la mano) seguisse una "pluralità" (cioè un continuo svariare attenzionale in più punti, interpretabile come un alternarsi della categoria di "cosa" allo stato attenzionale "puro"); mentre, nelle operazioni costitutive del "tempo", viceversa, una pluralità di partenza veniva inesorabilmente fissata della sequenza dell'attenzione che si applica a sé stessa (quindi "plurale" + "cosa"). Magari avessi detto così, in effetti ovviamente non ricordo cosa dissi, ma fatto sta che la dimostrazione, con mia ancor più grande sorpresa, non destò obiezione alcuna.
Al Terzo Intrattenimento Metodologico-Operativo (Rimini, 1995) provai ad obiettare a Ceccato che quell'analisi era convincente per le operazioni che uno esegue mettendosi nella situazione sperimentale prima descritta, ma nulla garantisce che l'analisi valga per le operazioni che uno esegue quando dice, per esempio, "ieri sono andato al cinema", o, "la mia automobile è molto piccola". Ceccato sorrise, e nessun altro raccolse il problema. In effetti, anche se si tratta di costruzioni più molto complesse, si può sperimentare anche su di esse e il risultato può essere gualmente soddisfacente ("cercando" la categoria di tempo in "ieri" e quella di spazio in "piccola" si può avere l'impressione che l'analisi sia valida).
Peraltro, l'altra analisi delle due categorie, quella proposta da Giuseppe Vaccarino, mi sembra altrettanto valida, e sono d'accordo con Felice Accame quando dice che l'auto-analisi dell'operatore operante, come metodo di analisi - e di controllo dei risultati della stessa - ha il difetto di non essere ben esplicitato (in termini di operazioni). Il suggerimento ceccatiano di "rallentare" le proprie sequenze attenzionali per poterle meglio "seguire" nel loro svolgersi, non specifica l'attività da eseguire - anzi, presuppone che essa si svolga in modo non controllabile dal oggetto, che potrebbe solo "innescarla" mettendosi in certe situazioni sperimentali, e poi, misteriosamente, "percepirla (su se stesso)".
Tuttavia, aver la capacità di percepire, in certi casi, le proprie operazioni, è un requisito necessario a sopravvivere (fame, sete, sonno, etc.), così come il riconoscimento di qualcosa come, per esempio, "lo stesso abito" o "un altro abito", dipende da un confronto fra operazioni mentali già fatte, e ripetute, ed operazioni che si stanno eseguendo.
Voglio dire che Ceccato, con l'ipotesi degli "stati attenzionali" che si combinano in vario modo per costituire le categorie mentali, offre una teoria (definizione dell'attività "costitutiva" come contemporanea al suo risultato e suddivisione della stessa in due fasi alternative ripetute le cui sequenze sono combinabili) e una simbologia (che consente di uscire dal circolo vizioso di definire parole con parole, privilegiandone giocoforza alcune) che consentono di dare un senso a ciò che altrimenti non potrebbe averlo; e, cioè, la percezione delle proprie operazioni mentali.Sono ancora convinto, insomma, che Ceccato abbia aperto una strada nuova, o meglio contribuito all'avanzamento di una strada molto antica, anche quando parla della sua "auto-analisi" ed invita gli altri a "controllare su se stessi".torna all'indice

Montecchio Maggiore, 4 aprile 1998
In memoria di Silvio Ceccato
Felice Accame

1.
Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, i giornali hanno dedicato pochi, imbarazzati e, a volte, imbarazzanti articoli alla figura di Silvio Ceccato. Se qualcuno, tramite questi articoli, dovesse farsi un'idea del contributo di Ceccato al pensiero del nostro secolo dovrebbe fare i conti con un insieme di informazioni piuttosto curioso. E, presumibilmente, giungerebbe presto alla conclusione che un contributo vero e proprio non c'è neppure stato. La sua vita scientifica per qualcuno si sarebbe praticamente interrotta negli anni Sessanta e sarebbe stata contraddistinta da speranze sproporzionate e illusorie. Da seguace "entusiasta" delle teorie di Norbert Wiener, sarebbe stato il papà italiano della cibernetica, o "il primo a parlare del computer in televisione", o "il filosofo che cercava la felicità attraverso le macchine". Oppure, alludendo ad alcune sue lezioni ai bambini delle scuole elementari, Ceccato sarebbe stato il "cibernetico per grandi e bambini". Infine, mirando forse inconsapevolmente ad asetticizzarne il pensiero, si è parlato di lui come di un personaggio "un po' stravagante", sempre pronto a scherzare e a fare dell'ironìa o, addirittura, come di un "leale bevitore veneto".
Tuttavia, chi avesse letto con un minimo di attenzione le sue opere saprebbe che Ceccato fu estremamente critico sia di Wiener che dell'idea di cibernetica da questi promossa. La cibernetica come "scienza del controllo e della comunicazione nell'animale e nella macchina" - secondo la nota definizione di Wiener - era viziata, secondo Ceccato, da una mancata definizione dell' "informazione" e, dunque, a questa oppose una cibernetica "ben diversa da quella immaginata da Wiener", anche perché - come disse in un saggio del 1964 - "come è uscita dal suo fondatore e come per lo più viene diffusa, oggi la cibernetica è più dannosa che utile alle scienze dell'uomo, od almeno alle scienze della mente dell'uomo".
Alla stessa stregua si potrebbe smentire nel modo più categorico che Ceccato fosse un filosofo, che affidasse a "macchine" la ricerca della propria o dell'altrui felicità e che - proprio lui che scrisse con la macchina da scrivere fino agli ultimi giorni - fosse un propagandista televisivo di computer o di scenari tecnologici del terzo millennio.

2.
Il fatto più curioso, tuttavia, è un altro. E' il fatto che, allo scempio interpretativo, aveva provveduto non in scarsa misura, Ceccato medesimo. Il suo antiaccademismo non era di facciata, ma, oserei dire, costitutivo del proprio pensiero stesso.
Ai filosofi si era opposto con un "gioco" - Il gioco del teocono, un neologismo formato dal "teo" di "teoretico" e dal "cono" di "conoscitivo" -, formulando le sue tesi senza il tono serioso opportuno e preferendo il burlesco. Irridente, scombussolò l'usanza accademica pubblicando il suo primo libro, nel 1951, presso un prestigioso editore francese e citando se stesso, alla russa, come parlasse di un altro - Il linguaggio con la tabella di Ceccatieff. A quanto mi consta, il caso di Ceccato è l'unico, nella storia delle idee, che può dare adito alla seguente ambiguità filologica: scoprendolo relatore ad un congresso intitolato alle Nouvelles ésthetiques, si rimane in dubbio circa la natura dei partecipanti: estetologi, secondo il noto tragitto compiuto da Baumgarten a Hegel, nella seconda metà del Settecento e nei primi anni dell'Ottocento, o estetiste, nel senso di professioniste della cosmesi. Si occupava di macchine piuttosto pretestuosamente e poca dimestichezza, entrava in scuola e non si insediava in una materia, l'arte e la musica ne accompagnavano l'esistenza. Ha scritto innumerevoli volte il medesimo libro - forse non ne ha scritto altri: ogni volta ha commentato il già fatto, glossando se stesso, in un'autobiografia scientifica inconsueta dove i risultati certi spariscono man mano a favore dei dubbi.
Interrompeva la propria lezione preso dalla voglia di ridere con il suo pubblico e raccontava una barzelletta come antidoto alla razione troppo impegnativa di sé. Aveva una rivelazione importante da comunicare, ma qualcosa gli vietava di assumere ruoli messianici e toni conseguenti.
Sulle prime, giusto in occasione del primo libro prototipo, fu attratto, a dire il vero, dal conferire una parvenza di sistema alle proprie idee, ma poi, non senza una certa gradualità, finì con il combattere questa tentazione nel modo più aspro.
Era tanto antiaccademico da detestare l'idea di poter intrattenere un rapporto di Maestro e allievo con chiunque. A maggior ragione con me, che ho sempre cercato di stargli vicino, malgré lui, per trentatré anni.

3.
Ceccato ha sempre prediletto un racconto della propria avventura intellettuale dove giocassero un ruolo importante i suoi studi di legge e, soprattutto, quelli di composizione musicale. Gli evitarono un incontro troppo repentino con il filosofare. La musica in particolare, poi, lo abituò a sensibilizzarsi "all'analisi temporale e polifonica", mantenendolo a "contatto quotidiano con il linguaggio forse più compiutamente legato in modo consapevole ad operazioni". In grazia di ciò avrebbe potuto dedicarsi, senza troppi preconcetti, all'individuazione e alla definizione dell'arte - una ricerca che, ampliandoglisi per così dire sotto le mani, porterà a termine soltanto dopo aver conseguito un risultato di ancora maggiore portata.
Questo risultato, in breve, potrebbe articolarsi in due fasi, l'una irrimediabilmente connessa all'altra: la definizione della filosofia come attività storica e la modellizzazione dell'attività mentale tramite una esplicita metodica analitica.
La definizione della filosofia come attività storica nasce da una critica radicale della teoria della conoscenza. La cosa non è una novità. Come ho già fatto notare, non c'è stato filosofo di un certo spessore che non abbia eretto un proprio sistema sulla base di una denuncia delle debolezze intrinseche dei sistemi altrui. Locke, Leibniz, Hume, Berkeley, Lichtenberg, Kant, Schopenhauer, Avenarius, Mach, Stallo, Mauthner, Dingler, etc. - per rimanere alla filosofia moderna - ciascuno di costoro ha preso le mosse dall'individuazione di un madornale errore nel pensiero dei filosofi che l'hanno preceduto. Protagora, probabilmente, aveva fatto qualcosa del genere in altri tempi.
L'errore insito nella teoria della conoscenza, alla base della filosofia, consisterebbe nel considerare contenuti e strutture del pensiero come copie di qualcosa esistente di per sé - in un raddoppio del percepito, posto sia in un metaforico "interno" del soggetto percipiente e sia in un altrettanto metaforico "esterno". Da lì la pretesa di un confronto tra un cognito ed un incognito - un confronto impossibile in linea di principio - e da lì l'idea di una conoscenza "vera", univocamente garantita, allorché dal confronto ne risulti un'eguaglianza. In un quaderno composto tra il 1796 e il 1799, Georg Christophe Lichtenberg notava come l'affermare che "le cose siano veramente al di fuori di noi e siano proprio come noi le vediamo è senza senso". E si domandava come non fosse "strano" che l'uomo vuole avere assolutamente due volte una cosa quando gli basterebbe averne una sola", visto che, comunque, una dovrebbe bastargli "perché non esiste alcun ponte tra le nostre rappresentazioni e le cause di esse".
Ceccato, per un verso, radicalizza questa consapevolezza fornendo un'ipotesi plausibile del perché ciò sia potuto accadere e di quanto questo errore, nascostamente, provenendo dalla filosofia sia rimasto incorporato nelle scienze; mentre, per l'altro verso, sa evitarne la conseguenza più banale e meno costruttiva rappresentata dalle soluzioni idealistiche.
La sua spiegazione - di cui mi sono occupato approfonditamente ne L'individuazione e la designazione dell'attività mentale - mette in luce una sorta di stato di necessità biologico-culturale in ragione del quale l'errore (che, allora, proprio "errore" non è) è potuto avvenire. La curiosità sulle modalità con cui avviene il processo della conoscenza può innescarsi solo ad una fase molto evoluta della società umana. Qualsiasi animale si occupa prima del rapporto tra percepiti che della natura della percezione stessa. Va da sé, allora, che lo schema esplicativo adottato nel primo caso, con successo, venga adottato ancora nel porsi il nuovo problema. Conseguentemente, il filosofo modellizza la mente umana come una collezione di entità, di copie de-fisicalizzate di qualcosa di compiuto e indipendente, e, così facendo, rende l'uomo un passivo recettore del mondo e rende la mente inanalizzabile in termini di attività. La conoscenza stessa, così come intesa dal filosofo, sarebbe una metafora destinata a coprire l'impossibilità del confronto tra copia e originale: se nel linguaggio ordinario la si intende come designante un rapporto posto tra due momenti - l'uno in cui si ripete quanto eseguito nell'altro -, nel linguaggio filosofico è chiamata a designare un rapporto di natura spaziale, tra un "dentro" e un "fuori".
In più, Ceccato denuncia la funzionalità di questo "errore" all'interno della struttura dei rapporti sociali e della loro storia. Così stando le cose, la ratifica delle "verità" - scientifiche, morali, politiche, giuridiche - è di competenza dei vari chierici, sia che si chiamino "stregoni" o "scienziati". Modificandole, ovvero denunciandone il vizio alla base, verrebbe meno "la possibilità di pronunciare asserzioni, non importa in che campo e su che cosa, dando alle parole un valore universale e necessario". Si indebolirebbe - come scrisse nel 1976 - "la forza di ogni imperativo".
Più chiaramente, e più drammaticamente, di quanti l'hanno preceduto su questa via critica, Ceccato mostra all'umanità un bivio: "salvare il filosofare, per facilitare l'esercizio del potere, con pregiudizio del sapere, cioè di una mente resa creatrice e responsabile; o promuovere il sapere del nostro operare mentale, con pregiudizio - finché l'uomo non saprà assumersi una responsabilità nei confronti suoi e degli altri - dell'esercizio del potere".
Dall'aver scelto per sé questa seconda strada - e dall'averne sentito la gravità -, credo possa anche esser derivata la scelta (o il condizionamento, a seconda dei punti di vista) di taluni aspetti stilistici della vita di Ceccato - forme del gioco e timore di esser preso troppo sul serio inclusi.
Come si diceva, un modello di attività mentale - e qui siamo alla seconda fase, alla pars construens del pensiero di Ceccato - non avrebbe potuto esser formulato concependo la mente come una collezione di entità. L'idea di una mente come insieme di attività, tuttavia, non è di per sé risolutiva del problema relativo al modo con cui descriverle.
Oltre ai fattori della vicenda personale - fra i quali si staglia l'incontro con Vittorio Somenzi e con Giuseppe Vaccarino, nel 1946, da cui il primo assetto di una Scuola Operativa Italiana -, nella genealogia dell'ipotesi avanzata da Ceccato, a mio avviso, hanno svolto un ruolo decisivo e concomitante almeno tre fattori storici. Il primo è costituito dalla nascita della cibernetica che, pur trascinandosi dietro inconsapevolmente l'eredità filosofica, configurava un campo di studi in cui l'analogia tra cervello e calcolatore era considerata cruciale in vista della simulazione delle cosiddette attività umane superiori. Il riferimento d'obbligo è, in questo caso, a vari saggi, scritti negli anni Quaranta, da Rosenblueth, Wiener e Bigelow, McCulloch e Pitts, Craik e Von Neumann.
Il secondo fattore è costituito dalla presenza oppositiva, in seno alla filosofia del Novecento e, soprattutto, in seno alla fisica, di correnti "operazionistiche".
Nel 1912, nella prefazione alla settima edizione de La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Mach scrive che "a settantaquattro anni e gravemente ammalato" non si sentiva più in grado di "fare nessuna rivoluzione", ma che, tuttavia, sperava "grandi progressi dal giovane matematico Hugo Dingler". Nel 1933, Dingler sarà ancora citato da Ludwig, figlio di Mach, nella prefazione alla nona edizione dell'opera. Tanta fiducia, a dire il vero, sembrerebbe esser stata ben ripagata. A Dingler si deve, infatti, una imponente ricostruzione operativa del pensiero scientifico che, per numerosi risvolti concernenti la fisica e la matematica, entrò in rotta di collisione con tesi più riverite - come, per citarne alcune, quelle di Popper, di Einstein e di Heisenberg.
Nel 1927, negli Stati Uniti d'America, Percy Williams Bridgman, pubblicò La logica della fisica moderna. Cimentandosi anch'egli in una dura polemica con Einstein, Bridgman sostenne l'esigenza di ricondurre i concetti della fisica ad operazioni, riprendendo esplicitamente, ed estendendo, una consapevolezza critica manifestata da John Bernard Stallo, nel 1882, nell'opera I concetti e le teorie della fisica moderna.
Ceccato lesse sia Dingler che Bridgman, ne tradusse direttamente o ne fece tradurre le opere e, soprattutto, ne portò a termine una disamina critica da cui scaturì l'esigenza di radicalizzare l'operazionismo di cui, con forme diverse, questi pensatori si erano resi promotori. Del rapporto tra Ceccato e Dingler è rimasto - grazie a Dingler - un interessantissimo carteggio che, presto, nella curatela di Carlo Oliva, sarà messo a disposizione degli studiosi.
Il terzo fattore, infine, è costituito da certi sviluppi della riflessione scientifica e filosofica. Era ormai nell'aria - per dirla sbrigativamente - un cambiamento nel modo di considerare l'attenzione, in quanto facoltà cui la tradizione filosofica (Locke, Leibniz, Condillac e Maine de Biran, per esempi) aveva attribuito rilevanti responsabilità in ordine alla vita mentale. Tra il 1907 e il 1908, per esempio, il matematico olandese Luitzen Jan Egbertus Brouwer, sostenendo la tesi che l'intera matematica potesse essere ricondotta a operazioni mentali - e contraddicendo, dunque, la tesi filosofica che vorrebbe i numeri indipendenti dall'attività umana e in ineludibile odor di misticismo -, descrisse la costruzione dei numeri naturali come iterazione di processi attenzionali. E il poeta Paul Valery - che nel 1904 aveva scritto una Mémoire sur l'attention tuttora inedita - parlò di un ipotetico "organo dell'attenzione" di cruciale importanza per la vita mentale e per la formazione dei significati nel linguaggio. O, ancora, l'opera di Fritz Mauthner (che, con Brouwer e ben più di Brouwer influenzò non poco il pensiero sia del primo che del secondo Wittgenstein), di Brentano e di Husserl e, poi, di Merleau-Ponty.

Ceccato compie la sua rivoluzione concependo l'attività mentale come un "costituire" - ovvero come un'attività che decade con il proprio prodotto - e individua nell'attenzione la sua componente essenziale, l'unità minima - provvisoriamente minima - dell'intera attività mentale; la investe del carattere di prius dalla cui combinatoria ottenere tutta la ricchezza dei nostri costrutti mentali e delle designazioni linguistiche. Laddove Leibniz si arrende, ritenendo che "nell'anima avvenga qualcosa di corrispondente alla circolazione del sangue e a tutti i movimenti interni delle viscere" - tutti dinamismi "di cui non si ha appercezione, proprio come coloro che abitano nei pressi di un mulino ad acqua non si accorgono del rumore che esso produce" -, Ceccato trova l'idea per iniziare l'analisi del sé operante.
"Il mio atomo costruttivo era lo stato di attenzione", racconta Ceccato in C'era una volta la filosofia - uno "stato di attenzione" che, si badi, per la sua natura bistadiale, di "aperto o chiuso" (o di "0 o 1") diventa l'analogo di un funzionamento in un elaboratore. Era il primo passo verso la descrizione della mente in termini di attività e verso la costruzione di macchine in grado di percepire, categorizzare e semantizzare.
L'analisi del sé operante - non dissimile dalle pratiche della consapevolezza tipiche della tradizione orientale - è condotta in relazione al modello del direttore d'orchestra che scinde in note e intervalli quel che, per altri, è fluente.

4.
Da queste due idee fondamentali ne sono seguite gradualmente altre: come il quadro gerarchico delle funzioni attenzionali (l'applicazione dell'attenzione al funzionamento di altri organi, l'applicazione dell'attenzione a se stessa, il mantenimento mnemonico); come l'idea del modulo di pensiero e della grammatica correlazionale (che ha consentito la progettazione di macchine per la traduzione meccanica e, nella versione di Ernst von Glasersfeld, la realizzazione di un linguaggio per la comunicazione via computer fra uomo e scimpanzé); come l'idea della specificità dell'attività estetica già a livello del modulo compositivo del pensiero; come l'idea dei rapporti consecutivi e di una metodica per dotare una macchina di una enciclopedia che costituisse il riferimento implicito della comunicazione; come l'idea del tipo di procedura che caratterizza l'attività scientifica o come la definizione operativa del valore e delle condizioni della sua applicazione. Senza contare i singoli problemi specifici di varie discipline sui quali Ceccato ha espresso concetti decisivi: dalla geometria alla fisica, dalla linguistica alla didattica. E' ovvio che chi disponga di un modello dell'attività mentale, nello sviluppare una teoria dei rapporti tra linguaggio e pensiero, si ritrovi a carico un compito che concerne gli apparati metodologici di tutte le scienze.
Da qui, anche, quella mancata disciplinarizzazione di Ceccato che, in un mondo scientifico organizzato come l'attuale, tanto articolato in nicchie protettive, crea sconcerto e diffidenza. Da qui, poi, l'impossibilità di usufruire di nomi storicamente ratificati e la difficoltà di passare ad un autobattesimo. Non a caso, dunque, Ceccato ha presentato le proprie tesi sotto nomi diversi. Ha parlato di metodologia operativa - ma l'ha presto sconfessata, ritenendo che in quel "metodo" di sapore cartesiano rimanesse implicata una "verità" filosofica come suo risultato -, di terza cibernetica, di cibernetica della mente, di logonica, e, soprattutto, di tecnica operativa - confidando in una sorta di "neutralità" della tecnica che le deriverebbe tuttavia dalla sua subalternità rispetto alla scienza, ovvero dall'essere consecutiva agli strumenti costituiti e finalizzati come tali. Rossi-Landi, a questo proposito, ha notato come l'idea provenisse da Vailati che, da antimetafisico qual era, per l'appunto, agognava una "filosofia sanata in quanto ricostituita come tecnica". Nella ricerca inquieta di un nome, comunque, Ceccato ha sempre evitato qualsiasi -ismo. Così come si è opposto agli operazionismi - perché ontologizzavano quel considerare in termini di operazioni che, invece, doveva rimanere un'opzione tra le altre -, si è anche opposto al costruttivismo che, troppo spesso, allude ad un costruire di cui non specifica affatto la natura e che, dunque, rischia di essere inteso come un residuo di idealismo. Nel suffisso -ismo, individuava già il meccanismo restrittivo delle libertà del ricercatore. Se dovessi scegliere, ancora una volta - pur sapendo di fare al mio Maestro cosa sgradita, ma sapendo anche di non fargli un torto -, sceglierei il nome di "metodologia operativa". Non solo perché è il primo nome che Ceccato ha escogitato per quella "posizione operativa radicale" che annunciava a Dingler, in una lettera del 1948, ma perché è il nome che meglio rappresenta la natura dell'indagine: "metodologia" è un discorso sulla via che porta ad un risultato - senza affermare che via e risultato siano gli unici possibili e senza affermare che siano quelli giusti - e la modalità di questo discorso è specificata nella scelta delle operazioni, ovvero del dinamismo. Allo stato della ricerca - quando ancora un corrispettivo neurofisiologico dell'attenzione è ben lungi dall'esser stato determinato univocamente -, il nome di "metodologia operativa" mi sembra quello che riflette più chiaramente le opportune cautele.

5.
Nel 1987, uno dei più eminenti e dei più seri uomini di scienza del nostro secolo, Mario Ageno - che conobbe Ceccato e si cimentò, fra il tanto d'altro, in una ricostruzione operativa della fisica - diceva che "la frontiera costituita dal problema della natura e dell'origine del pensiero" - che qualificava come "la vera frontiera dell'impresa scientifica" - "non può più essere rispettata, ma a un certo punto dovrà essere aggredita dalla ricerca biofisica, anche se molto probabilmente tutti gli strumenti di pensiero fino a quel punto impiegati si riveleranno impotenti a consentirne l'attraversamento".
Nel 1985, Peter Janich, un filosofo tedesco, ha scritto un saggio significativamente intitolato L'operazionalismo come criterio fondamentale di scientificità, dove rileva che, nonostante tutto il gran filosofare sulla scienza dei vari Popper, Kuhn, Lakatos e Feyerabend, nell'indifferenza degli scienziati "i problemi sono rimasti completamente gli stessi e fino ad ora nessuna decisione metodologica da parte degli scienziati è diventata, né potrebbe divenire, una questione della scienza stessa".
Al Congresso della Società Filosofica Italiana, a Bari, nel 1997, il cibernetico Giuseppe Trautteur ha affermato che, negli ultimi trent'anni, a proposito dei rapporti tra uomo e macchina e tra mente e cervello, né sono stati compiuti significativi progressi, né sono stati chiariti i termini delle questioni in gioco.
Nella letteratura scientifica, si riconosce sempre più spesso e sempre più apertamente che certi modelli su cui si è lavorato fino ad ora - come, per esempio, quelli della percezione - sono troppo poveri e semplificati. Così come sempre più spesso si dichiara che, alla descrizione dei fenomeni linguistici, non si perverrà se non dopo aver approntato un modello articolato e coerente dell'attività mentale. Perfino il celebratissimo Chomsky, di retromarcia in retromarcia, è giunto a queste ammissioni.
Chiunque abbia potuto seguire l'avventura intellettuale di Ceccato e della Scuola Operativa Italiana sa che, per ciascuno di questi problemi, era stata indicata una soluzione che nessuno si è mai sognato di verificare.

6.
Nonostante questi chiari riscontri della legittimità delle proprie tesi, Ceccato ha convissuto con dubbi crescenti. Ebbe il timore che la propria metodica di analisi fosse difficilmente comunicabile e, visto come continuavano ad andare le cose, ebbe il timore che, al mondo, non ci fosse neppure grande disponibilità per comprenderla. Emergeva in lui, allora, la componente scettica sostenuta dalla consapevolezza dell'impossibilità che la sua rivoluzione potesse venir condivisa e dalla consapevolezza intorno allo stato dei rapporti di forza nel mondo - del potere inestinguibile dei filosofi, anche sotto le mentite spoglie degli scienziati.
Sono convinto che in Ceccato abbiano albergato, e combattuto fino alla fine, due anime: quella di chi rifugge dallo scetticismo, denunciandone il supremo dogmatismo, e quella di chi, arreso di fronte alle frustrazioni della Storia umana - dove si ricomincia ogni volta da capo nel rispondere alle domande fondamentali e nel comprenderne il vizio di fondo già nella loro formulazione; ricacciati dal Potere in una sorta di eterno gioco dell'oca dove il subordinato deve perdere sempre e comunque -, di chi, di fronte a tutto ciò, sorride per nascondere una lacrima e una smorfia di contrito disgusto.
Ceccato, insomma, avrebbe ben volentieri accettato quella definizione che Anatole France, in Taide, un romanzo del 1890 dà dei "sistemi costruiti dai saggi" come meri "racconti immaginati per divertire l'eterna infanzia degli uomini", ma, in cuor suo, si sarebbe anche sempre ricordato sia che ogni tanto questi sistemi funzionano e sia che l'eterna infanzia degli uomini non per tutti è ugualmente divertente.torna all'indice
Il bidone estetico
Felice Accame

I casi della vita mi riportano spesso alla memoria il povero Kammerer (cfr. A. Koestler, Il caso del rospo ostetrico, Milano 1989; e F. Di Trocchio, Le bugie della scienza, Milano 1993, pp. 189-202). Convinto di potere prima e di dovere poi dimostrare l'ereditabilità dei caratteri acquisiti giunse a truccare i suoi esperimenti con rospi e salamandre, venendo, ahilui, scoperto e screditato di fronte a tutta la comunità scientifica. La scienza, si sa, dà donne, gloria, potere e quattrini. Almeno quella concepita e cresciuta in ambiente conoscitivistico. E' così che persone magari perbene, seminando infelicità intorno a sé, cercano di uscire a qualunque costo da un anonimato sofferto e sono pronte a far carte false pur di usufruire di una parvenza di ratifica da qualche frangia marginale della corporazione. Anche la scienza ha le sue patologie.
Il caso della vita più recente, in proposito, è quello di Giorgio Marchetti che, appropriandosi di un'idea molto nota di Ceccato, pubblica La macchina estetica (Milano 1997). E' un libro che già dall'Indice lascia perplessi, perché vanta la bellezza di tre "introduzioni". La prima di queste segue il modello narrativo di Ceccato, amputandogli, tuttavia, le basi filosofiche e antifilosofiche, sia per palese impreparazione culturale dell'Autore (per esempio: "le finzioni, pur essendo utili, sono pertanto contraddittorie, in quanto non rispecchiano la realtà", a pag. 41, come critica a Vaihinger !) che - come si chiarisce in più punti successivi - per convenienze adulatorie. Difficili, infatti, sarebbero stati i rapporti con i finanziatori del volume presentando un quadro metodologico-operativo esauriente. Già che c'era, anzi, l'Autore è andato oltre e, ipotizzando che "il nostro essere si possa espandere all'infinito" (pag. 48), ha provveduto a non inimicarsi neppure i potentati di mistiche e religioni varie.
I tratti del "dilettante allo sbaraglio", d'altronde, sono chiaramente individuabili negli imbarazzanti tentativi di distinguersi dagli autori cui attinge (l'idea che dovrebbe aprirgli le porte del mondo "scientifico" è quella di non parlare di "stati attenzionali", ma di "movimenti attenzionali"., pag. 10), nel pescare a piene mani in esempi altrui, nella ridondanza del tentativo di spiegarsi, nell'angosciata e angosciante incapacità ad evitare la tautologia (per esempi: "gli elementi produttori mentali e i prodotti mentali coincidono con il processo mentale", pag. 19; "l'attività mentale non è tanto (sic) e direttamente identificabile con l'attività fisica che si svolge nel nostro cervello, quanto con la particolare funzione (mentale, e non fisica) che tale organo (il cervello) è destinato a eseguire", pag. 153) e, infine, nel non aver neppure saputo copiare decentemente. Infatti, l'Autore, laddove parla di un peraltro misterioso "capire" l'opera d'arte, ritiene di doverlo far dipendere dall'adozione di un "nuovo ritmo proposto dall'autore" (pag. 70) - dimenticando, nell'ipostasi realista, che Ceccato parla di giudizio estetico in rapporto al ritmo della frammentazione estetica e all'articolazione "dovuta alle attività percettiva o rappresentativa, o di pensiero, che costituiscono quanto si giudica" (cfr. S. Ceccato, La mente vista da un cibernetico, Torino 1972, pp. 104-105).

P.S.: Sulle convenienze adulatorie nella letteratura scientifica e parascientifica si potrebbe scrivere un trattato. Ivi, un capitolo andrebbe dedicato alle citazioni. Nell'opera prima di Marchetti, La meccanica della mente (Roma, 1993) già mi aveva preoccupato - oltre ad un cospicuo insieme di argomentazioni (come feci notare all'epoca, anche a lui personalmente) - almeno una citazione relativa ad un mio saggio inedito e ad un libretto nato dalla collaborazione con Carlo Oliva (pag. 122). La sua pleonasticità si coniugava perfettamente con la veste di "socio" del Marchetti nelle imprese della Società di Cultura Metodologico-Operativa. Ora, invece, il Marchetti medesimo opera "nell'ambito di un progetto finanziato dal MURST e coordinato dal prof. Massimo Negrotti" e, dunque, sembrano "inevitabili" note che esordiscano con "mi sembra inevitabile, in questo contesto, riallacciarmi alla Teoria dell'Artificiale sviluppata da Massimo Negrotti" (pag. 50). In quest'arte, giunge ai vertici allorquando dice che "possiamo affermare, con Negrotti, che anche il prodotto dell'attività artistica appartiene 'al dominio dell'artificiale' (davvero straordinaria sarebbe stata una citazione dove si fosse affermato il contrario), in quanto: 'l'obiettivo dell'artista è esattamente quello di proporre un certo modo di essere e di proporre la realtà' " (pag. 67). Il che equivale ad iniettare nottetempo inchiostro nelle zampe dei rospi.torna all'indice
Notizie

Libri ricevuti:
Pierluigi Amietta e Silvia Magnani, Dal gesto al pensiero - Il linguaggio del corpo alle frontiere della mente, prefazione di Donata Fabbri, con un saggio di Silvio Ceccato, Franco Angeli Editore, pagg. 326, L. 42.000.

Su "Nuncius" Annali di storia della scienza XII, 1997, 2 è stata pubblicata un'intervista a Vittorio Somenzi a cura di Riccardo Urbani.

L'Istituto Mitteleuropeo di Cultura (Mitteleuropaeisches Kulturinstitut) di Bolzano organizza il Bisca-98 (Bolzano International School in Cognitive Analysis) sul tema: Unfolding Perceptual Continua.

Studi sul pensiero di Silvio Ceccato.
Saggi pervenuti:
Vittorio Somenzi, Remarke on the Italian approach to the problem of mechanical translation and abstracting.

SOTTOSCRIZIONE PER METHODOLOGIA

Sono pervenuti i contributi di:

Pierluigi Amietta L. 500.000
Vittorio Somenzi L. 250.000torna all'indice