Incontro una difficoltà che mi impedisce di seguire gli eleganti sviluppi di analisi semantica architettati da Arturi (cfr. WP 126) e da Vaccarino (cfr. WP 127) nonché di apprezzarne la consistenza.
Ritengo che debba chiamarsi “rapporto semantico” quell’attività mentale che connette un evento qualsiasi (un suono, un grafema, una serie di colpetti contro la parete di un carcere, le nuvolette di fumo di Aquila della Notte, un giornale lasciato sul posto in treno, etc.) con le operazioni costitutive della cosa nominata. Relativamente all’importanza di questa individuazione mi basta ricordare che, a parere di Ceccato e Zonta (cfr. Linguaggio consapevolezza pensiero, Milano 1980, pag. 22), questa rimase “per il linguista generale l’ostacolo più grosso”. Allorché si pongano, poi, le condizioni di una ripetizione di questo rapporto – ai fini della coordinazione dei comportamenti di più persone, della socializzazione, della comprensione reciproca dei parlanti nella comunicazione - ecco che il “rapporto” diventa un “impegno”. E allorché l’impegno sia diffuso fra tanti parlanti (semplifico) si parla di “lingua”.
Gradirei o sapere che mi sbaglio e perché mi sbaglio o sapere perché da questa premessa non si possa né si debba incontrare difficoltà.
Felice Accame