Da “Prometeo”, 19, 73, marzo 2001 –con il titolo (redazionale!) Né immagini né parole, ma soloattività mentale (tanto per fomentare qualcheinterpretazione grossolanamente idealistica in più).

 

 

 

 

Nel seminario romano dell’11 maggioscorso, intitolato “Immagine teoretica o teoretica dell’immagine ?”,ho preso le mosse da alcuni esempi tratti dalla storia della scienza. Horicordato che, nell’epoca in cui la rappresentabilità deglioggetti di studio della fisica entrava in crisi, si svolse l’avventurarelativa all’elettrone avente carica positiva, o positrone (o positone).Così come la racconta Norwood Hanson (in Il concetto di positrone, Abano Terme 1989), l’ “antiparticella” fufotografata dall’americano Carl David Anderson il 2 agosto del 1932, ma,nonostante fosse stato prevista da Dirac qualche anno prima, a quanto pare, nonvenne “vista”. Non c’era  teoria sufficiente perché la si vedesse. E vennecategorizzata come “tracce spurie” o “effetti sporchi”.Forse anche Skobeltzyn e altri l’avevano fotografata prima di Anderson –e qualcuno aveva parlato di “elettroni che tornavano alla sorgente”-. ma venne identificata come tale solo dopo gli esperimenti di Blackett e Occhialini.

“La teoria era contraria.L’osservazione era contraria”, dice Hanson e così neratifica la momentanea invisibilità.

Ho ricordato pure alcune osservazioni diFleck. Nel 1935, Ludwik Fleck pubblicò Genesi e sviluppo di un fattoscientifico e non se ne accorse quasi nessuno. Nel1962 Kuhn, però, pubblica La struttura delle rivoluzioni scientifiche dove attinge a piene mani da Fleck – ottenendo molta attenzionedal mondo scientifico. Più tardi lo presenterà al pubblicoamericano e dirà di averne saputo l’esistenza grazie ad una notadi Reichenbach. Mi dilungo sull’antefatto perché anche certi libri– come il libro di Fleck - possono essere considerati oggetti dipercezione andata a male o ritardata a causa del contesto teorico in cuicapitano. All’interno di un quadro teorico analogo a quello di Hanson, Fleckfa molti esempi. Come quello della  trascrizione della Epitome delVesalius ad opera di Fontanus (1642) dove trova delle immagini degli organigenitali femminili, che per proporzioni e per posizioni degli organi risultano– all’occhio dell’odierno anatomista – piuttostoinconsuete. Addirittura, vi sarebbe segnato un “ductus” di cui oggisi sarebbe perduta ogni traccia. Tuttavia, secondo Fleck, le immagini sarebberoperfettamente funzionali all’idea fondamentale che guidava il Vesalius:la stretta analogia tra organi genitali maschili e femminili.

O come quello del numero delle ossa del corpoumano. Lo stesso Fontanus, infatti, le farebbe ammontare a 364, ma, modificandoi criteri descrittivi, ovviamente, si può giungere a vari risultatidiversi. L’ Enciclopedia moderna italiana diBaldi e Cerchiari, molta diffusa nel periodo fascista, è incerta tra  251 e 253, mentre in Terminator 2 (un film di James Cameron, del 1991), una fanciulla ferocissima dicedi voler rompere ad un poveretto tutte le sue 215 ossa. Ma, al culmine dellatirchieria, c’è chi dice che oggi le ossa sono appena 206 – e,tuttavia, si fanno congressi di anatomia dove, ogni tanto, qualcuno relazionasulla scoperta di un osso nuovo nel corpo umano.

 

Spiega Fleck che “il vedere una formaè questione che tocca esplicitamente lo stile di pensiero” –e che “ogni osservazione è un vedere con un senso”. Ilrisultato di ogni percezione – come le forme con le quali lorappresentiamo – dipenderebbe da presupposti e verrebbe a far parte diquel calderone sociale che è la “conoscenza”.

I nomi, poi, conterrebbero le teorie e,spesso, ostacolerebbero la consapevolezza circa il cammino che è statopercorso e il mutamento possibile. Fiumi d’inchiostro, d’altronde, sonostati versati sul nome “atomo” – che significherebbe il “nonscindibile”.

 

Ho ricordato anche – meno a caso -  gli esperimenti di Silvio Ceccato suimovimenti dei bulbi oculari. Avvalendosi di alcuni studi di Cesa-Bianchi e,soprattutto, correggendo la tecnica ancora rudimentale del russo Yarbus,Ceccato – grazie ad una collaborazione tra il Centro di Cibernetica e diAttività Linguistiche dell’Università degli Studi e ilPolitecnico di Milano, intorno al 1960 – filmò i movimenti dei bulbioculari cercando di individuarne i rapporti con la predicazione linguistica econ i processi di categorizzazione. Ne risultò, chiaramente, cheè sufficiente “guidare” il soggetto percipiente con parolediverse, ferma restando la medesima situazione fisica da percepire, perottenere percorsi molto diversi l’uno dall’altro e, tuttavia, moltosimili da soggetto a soggetto. Non solo: ne risultò, anche, che a voltei vincoli percettivi sono tali da innescare – come nelle illusioniottiche, del tipo delle famose frecce di Muller-Lyer – alcune categorizzazionisenza la presenza-guida del linguaggio.   

 

Ho spiegato, poi, come qualcuno, da questi eda analoghi esempi, abbia tratto una morale che non mi piace, ovvero l’avvaloramentodi tesi scetticheggianti. Se ogni percezione è carica di teoria –se non possiamo vedere l’organo senza aver individuato una funzione, selo statuto di fisicità è frutto comunque di criteri, se lapercezione modella il percepito -, la scienza non sarebbe un’impresaaffidabile. Questa tesi, a mio avviso, riposa su una concezione della scienzagravemente erronea, tipicamente filosofica.

Esentatici dall’idea che la scienzadebba riprodurre fedelmente una “realtà esterna” oggettiva –un’idea autocontraddittoria, perché niente e nessuno potràmai garantire del confronto tra le due “copie” -, la possiamoconsiderare un’impresa aperta, basata sulla definizione di paradigmi,sull’individuazione di differenze dai paradigmi e dal tentativo di sanarequeste differenze – possibilmente senza contraddire le sanatureprecedenti e, a volte, il più raramente possibile, mutando i paradigmi. Losviluppo della scienza, allora, avverrebbe per nuovi costituiti e per rapportinuovi tra costituiti noti.

La mia posizione è minoritaria.Perché non faccio fatica ad ammettere che i costituiti di cui parlo sonoil risultato di operazioni mentali e che si sbaglia a ratificare allascientificità solo ciò che merita lo statuto di “fisico”.E’ la posizione che, pur con differenti orientamenti, fu di Bridgman, diCeccato e, più recentemente, del Norbert Elias del Saggio sul tempo. Ed è una posizione che si contrappone alla tradizionefilosofica ed ai suoi radicamenti nelle scienze naturalistiche attuali.

Rivendico, dunque, la necessità  di un modello dell’attivitàmentale che possa orientare come un modello di funzione ogni osservazioni deifunzionamenti. Le neuroscienze, cui i problemi della percezione e dellinguaggio sono correttamente demandati, hanno necessità di un modellodi funzione sufficientemente ampio e sufficientemente analitico da consentiredi assegnare un significato a tutto ciò che differenziano nel cervello. Dametodologo operativo – da persona, cioè,  che  si occupa dei processi che portano ad un risultato -interessato ai rapporti tra linguaggio e pensiero, allora, rappresento unaposizione minoritaria – fra persone che hanno accettato per anni chedella mente non si potesse parlare. Non lo dico solo io, lo diceva Oliver Sakcsnel 1993 (in “La rivista dei libri”, III, 6, giugno 1993) datandoal 1988 il curioso limite prima del quale “i concetti di ‘mente’e di ‘coscienza’ erano praticamente esclusi dal dibattitoscientifico” – alla faccia del povero Ceccato e della Scuola OperativaItaliana (Rossi-Landi, Somenzi, Vaccarino, fra i primi) che, invece, incurantidelle scomuniche, proponevano un modello di attività mentale a partiredal 1948.

Insomma: senza mentale niente immagini –e, a maggior ragione, niente teoria.

Da questa posizione, posso anche contestare lamaggior parte dei presupposti che stanno alla base di alcune delle domande conle quali si vorrebbe risintetizzare il dibattito svolto. Per esempio, non mipongo il problema della preminenza informativa tra “parola scritta”,“immagine” o “parola+immagine”, perché considerol’informazione un risultato operativo del percipiente e non un dato dipartenza passibile di trasferimento. Oppure: non posso scegliere fra la memoriacome “mondo di immagini” o “mondo di parole” –checchessia voglia dire “mondo” e nonostante sia piùelegante di “magazzino” -, perché considero la memoria unprocesso e perché ritengo che i costituenti di questo processo nonpossano essere né immagini né parole. Oppure ancora: non cerco ditrovare differenze fra immagine e parola prima di aver individuato cosa processualmentele accomuna. D’altra parte, so che giudicare della “civiltà”o della “inciviltà” di una certa (o incerta) situazione significaapplicare valori – per l’analisi dei quali mi occorrerà,anche qui, un modello dell’attività mentale che li costituisce.  

 

 

                                                            Felice Accame