#93
![]() Indice Per la memoria di Silvio Ceccato Felice Accame ![]() Sul rapporto indiretto tra Alexis Carrel e Silvio Ceccato Felice Accame ![]() Problemi di traduzione Carlo Oliva ![]() Notizie ![]() Felice Accame Il 2 dicembre dell'anno appena trascorso è morto Silvio Ceccato. Dal 1964 in avanti è stato il mio Maestro, ho avuto l'onore di lavorare sotto la sua direzione, prima, e di potermi intrattenere in amicizia con lui, poi. E' allora comprensibile che io abbia fatto un minimo di attenzione a come i giornali hanno dato notizia della sua morte ed a quel genere letterario, tutto particolare, che è il "coccodrillo", ovvero i necrologi preconfezionati in cui si rende conto di una vita intera che, da poco, se n'è andata. Innanzitutto, c'è da fare una considerazione di ordine cronologico, sulla tempestività della notizia. Nei giornali del giorno 3, neppure un cenno. Il giorno 4 ci arrivano "Il Corriere della Sera", "La Stampa" e "Repubblica". Il giorno 5, "L'Unità" e "Il Giorno". "Il Sole - 24 Ore" attende, ovviamente, l'inserto cultural-scientifico della domenica 7, e "Il Corriere della Sera", sorprendentemente, il 28 dicembre. Sembrerebbe l'esito di un'ardua dialettica: "Qui dicono che è morto Silvio Ceccato", "E chi è ?". Ed ecco, allora, la ricerca di uno "specialista". Il quale, non avendo mai letto le migliaia di pagine scritte da Ceccato e non potendosele leggere in poche ore, improvvisa. A cominciare dalla data della morte: per Giorello ("Corriere") e per Bottazzini ("Il Sole") sarebbe morto il giorno 3; altri, come De Falco ("Il Giorno") ricorrono a penose perifrasi oscure (del tipo "a poche ore dalla sua scomparsa") - è un modo per autogiustificarsi nella disinformazione. Passando magari dalla bibliografia: Calcagno ("La Stampa") s'inventa perfino una Anatomia del pensiero che Ceccato non ha mai scritto. Per proseguire sui modi con cui si è cercato di sintetizzare il suo pensiero o il suo apporto al mondo che ha vissuto. Già i titoli la dicono lunga: "Addio a Ceccato, il filosofo che cercava la felicità attraverso le macchine", "Morto Ceccato, papà della cibernetica", "Ceccato, cibernetico per grandi e bambini", oppure "Ceccato e l'utopia dell'uomo-macchina" o "Adamo II ha perso il suo profeta". E' vero che negli articoli si trova il peggio, ma è anche vero che, in questi titoli, stringatamente, questo peggio è ben rappresentato. L'affermazione relativa ad un Ceccato "filosofo" può esser fatta da due tipi di persone: da quelle che di suo non hanno letto alcun scritto pubblicato tra il 1949 e il 1996, e da quelle che, deliberatamente, avrebbero voluto rivolgergli un insulto. La sua ghettizzazione nell'ambito della cibernetica, invece, su qualche pretesto potrebbe basarsi. Infatti è sicuramente vero che Ceccato si è occupato anche di "macchine" - più sulla carta che in ferraglia - dal 1953 alla seconda metà degli anni Sessanta: aveva idee che potevano trovare applicazione parziale anche in quel campo e, fino a che ha trovato qualcuno che gli passasse uno stipendio, in quel campo si è dato da fare. Con risultati teorici indubbiamente più consistenti di quelli di tanti celebrati colleghi. Adamo II non fu affatto "una macchina intelligente in grado di riconoscere le forme degli oggetti", come affermano sia Giorello che Bottazzini scambiandolo per il "cronista meccanico", ma fu, comunque, un marchingegno, presentato a Milano nel 1956, che simulava la formazione di un numero limitatissimo di categorie mentali. Tanta enfasi su questa quindicina d'anni, ignorando il quadro teorico complessivo elaborato da Ceccato prima durante e dopo, non può non insospettire. E anche il tirare in ballo questi "nostri anni che vedono i computer battere a scacchi i campioni umani e l'informazione correre libera su Internet", dicendo che tutto ciò "in qualche modo" gli renderebbe "giustizia" (Giorello), o il cadere nel ridicolo dichiarando che Ceccato fu "il primo a parlare, attraverso la televisione, di un oggetto chiamato computer" (Calcagno) - detto di uno che ha scritto fino all'ultimo con la macchina da scrivere e che il computer non sapeva nemmeno come accenderlo -, sembra perfettamente funzionale alla scorciatoia che si è, collettivamente, si noti, deciso di prendere. Ciò ha permesso che, al posto di Ceccato, si parlasse d'altro. Spettacolarizzando la scienza (le macchine intelligenti e scemenze del genere) e aggregando l'ignoto al noto - un procedimento che ha sempre il potere di rassicurare. Così si è parlato soprattutto di Wiener e della sua cibernetica, giungendo ad asserzioni palesemente false o in malafede come allorquando, nel tentativo di eludere e minimizzare il pensiero di Ceccato, Bottazzini dichiara che Ceccato fu "affascinato dalle teorie del matematico americano Norbert Wiener" di cui sarebbe stato "uno dei primi e più entusiasti interpreti e divulgatori". Mentre chiunque abbia letto qualcosa di Ceccato sa che a Wiener Ceccato riserva critiche ferocissime, che contesta perfino la sua definizione della cibernetica ("scienza del controllo e della comunicazione nell'animale e nella macchina") e che, non a caso, ha sempre parlato della propria come di una terza cibernetica (la "seconda", per Ceccato, era la bionica, ovvero scienza dell'imitazione del biologico) per distinguersi da Wiener. Quanto non si è travasato in cibernetica, si è buttato in buontemponerie ("papà", "per grandi e bambini", "cercava la felicità", "un po' stravagante", l'accento sulla sua voglia di scherzare e sull'ironìa) - nell'innocuo, insomma. Questo parlar d'altro da parte degli zelanti servitori del Potere e della sua Cultura, in realtà, ha più di un fondamento. Ceccato ha lasciato due eredità intimamente connesse: un'analisi della filosofia come fenomeno storico - con relativa denuncia della sua intrinseca truffaldinità e della sua funzione di subalternità al Potere - ed una proposta di analisi dell'attività mentale - con relativo modello dei rapporti fra questa attività e il linguaggio. Le due eredità sono connesse perché, come mostra Ceccato, non si potrebbe pervenire alla seconda senza essersi sbarazzati della prima. Non si tratta di un lascito di poco conto. Hume, Berkeley e Kant - per citare i più noti - ci sono arrivati vicino, ma il fosso non l'hanno saltato. Marx, è rimasto più indietro ancora e, nel nostro secolo, è stata tutta una gara - fra filosofi e scienziati sproloquianti - a chi arretrava di più (non a caso Alberoni, su "Il Corriere della Sera" del 5 gennaio, festeggiava il trionfo del "bisogno di sacro, di mistero, di magico e di trascendenza" sulla "dittatura della scienza" in questo nostro finale di secolo). Queste eredità, peraltro, sono da quasi cinquant'anni patrimonio di elaborazione della Scuola Operativa Italiana, ma di questa entità - che in quanto tale obbligherebbe a fare i conti con qualcosa di diverso da cibernetica e buontemponerie - nessuno si è ricordato, secondo il romantico (e mistificatorio) modello esplicativo della storia delle idee che vorrebbe il singolo, isolato e geniale, produrre la scintilla in totale assenza e di terreno di coltura e di altri protagonisti. Non sarebbe la prima volta che i coccodrilli finiscono con l'avere ragione - la storia della nostra cultura è zeppa di perfetti imbecilli e malintenzionati fatti passare dal regime del loro tempo per dotti sublimi e filantropi, a dimostrazione indiretta di quante persone valide e perbene siano state fatte passare per inette e teppiste - ed impostare così, fra il serio ed il faceto, la figura umana di Silvio Ceccato una volta per tutte, secondo canoni narrativi accomodanti. Farò ciò che potrò affinché ciò non accada, ma si tratterà del consueto scontro impari dall'esito scontato. Tuttavia, fino a che le carte originali (libri, saggi, articoli e relazioni a congressi) sono ancora in giro, chi nutrisse amore per la cultura della sovversione e chi volesse davvero riconsiderare il mondo a partire dal modo con cui se lo costituisce - avendo presente quanto questa consapevolezza possa tradursi nelle prime mosse di ogni pratica della sovversione -, fa ancora in tempo a farsene un'idea in proprio. P.s.: Silvio Ceccato è nato a Montecchio Maggiore (Vicenza) nel 1914. Con Vittorio Somenzi e Giuseppe Vaccarino, dal 1949 al 1965, ha fondato e diretto "Methodos", una rivista internazionale dedicata, prima, ai temi del linguaggio e della logica, poi, alla cibernetica. Ha diretto il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche dell'Università degli Studi di Milano. La sua critica radicale della filosofia è ben esposta in Il Teocono o della via che porta alla verità (in "Methodos" I, 1, 1949; poi, in edizione più "popolare" in "Il Delatore", 1, 1964 e, con aggiunte, sotto il titolo Il gioco del teocono, edito da Scheiwiller, Milano 1971; un'analisi critica delle prime due edizioni è stata condotta da Carlo Oliva e dal sottoscritto in "Pensiero e Linguaggio in operazioni", II, 7/8, 1971) e ne Il linguaggio con la Tabella di Ceccatieff, libro introvabile pubblicato da Hermann, a Parigi, nel 1951, ma ristampato, con glosse dell'autore, in Un tecnico fra i filosofi, vol. II, edito da Marsilio, a Padova, nel 1966. Una delle poche sintesi ben fatte del suo pensiero è La mente vista da un cibernetico, pubblicato dalla Eri, a Torino, nel 1972. Gli sviluppi più maturi del suo modello dei rapporti tra linguaggio e pensiero sono riscontrabili in Linguaggio consapevolezza pensiero, edito da Feltrinelli, a Milano, nel 1980 (scritto in collaborazione con Bruna Zonta), e Il linguista inverosimile, edito da Mursia, a Milano, nel 1988 (scritto in collaborazione con Carlo Oliva). I suoi studi sull'estetica sono ripercorsi criticamente ne La fabbrica del bello, edito da Rizzoli, a Milano, nel 1987. La bibliografia generale dei suoi scritti è reperibile su questo sito, nella sezione "Bibliografia generale". Infine, immodestamente, rammento che del pensiero di Ceccato e degli sviluppi della Scuola Operativa Italiana mi sono occupato in numerosi saggi (perlopiù irreperibili, perfino da me) ed in due libri: L'individuazione e la designazione dell'attività mentale, edito da Espansione, a Roma, nel 1994, e Scienza, storia, racconto e notizia, edito dalla Società Stampa Sportiva, a Roma, nel 1996. ![]() ![]() Felice Accame Premessa. Nell'Appendice quarta della sua Guida alla semantica (Milano 1975), Georges Mounin sostiene che la tesi di Ceccato è stata \93reinventata\94, derivando essa \93da una corrente filosofica nota come filosofia operazionale, di cui fanno parte ad esempio Bridgman, Dingler e Morris Schlick, abbastanza famosa perché Alexis Carrel ne parlasse già nel suo best-seller già nel 1935\94 (pag. 161). Ho sempre sospettato che l'estensione della citazione a Carrel facesse parte di un furbesco apparato retorico svalorizzante \96 come altre pseudo-argomentazioni di Mounin contro Ceccato che ho analizzato ne L'individuazione e la designazione dell'attività mentale -, ma le difficoltà incontrate nel reperire una copia del libro in questione, L'uomo, questo sconosciuto, mi hanno sempre impedito di appurarlo. Ora, grazie alla munifica amicizia di Vittorio Somenzi, ho potuto constatare i termini della questione. Ho letto, dunque, questo libro nella sua diciottesima edizione del 1942, realizzata da Bompiani, a Milano già nel 1936, nella traduzione di un \93Dott. V. Porta\94 e ne ho ricavato tre grandi ordini di informazioni, secondo lo schema seguente:
a) 1. C'è una vaga analogia di ordine narrativo. Secondo Carrel, i \93nostri antenati\94 sarebbero stati per forza di cose più interessati al mondo materiale che alla conoscenza di sé stessi (pag. 26). Ceccato, spesso, ha iniziato suoi racconti spiegando come l'uomo primitivo si occupasse essenzialmente di rapporti fra i risultati della sua percezione, trascurando il modo con cui li otteneva. 2. Cita Bridgman, peraltro con scarsa attenzione. Parla di \93concetti operativi\94 che sarebbero \93equivalenti all'operazione o alla serie di operazioni necessarie per acquistarli\94 (pag. 50) e di \93concetti di cose che esulano dal campo dell'esperienza\94 che, per Bridgman, \93non hanno alcun significato\94 (pag. 51). \93Il concetto di durata\94, poi, sarebbe \93equivalente all'operazione mediante la quale noi lo misuriamo negli oggetti del nostro universo\94 (pag. 182), essendo, \93come dice Bergson, il tempo è la trama della vita psicologica\94 (pag. 185). Ceccato cita Bridgman per criticarlo. 3. Dice che \93non esiste mezzo alcuno per osservare la presenza di un processo mentale nell'interno delle cellule cerebrali\94 (pag. 51), ma dubito che Ceccato apprezzerebbe l'individuazione delle singole cellule come sede di checchessia possa esser definito \93mentale\94. 4. Anche lui vorrebbe \93liberarsi dei sistemi filosofici e scientifici\94, ma attribuisce l'idea a Claude Bernard (pag. 53). Parla, perciò, di \93errori\94 che, dapprima, esemplifica nello scontro fra vitalismo e meccanicismo\94 (pag. 54) e, poi, nella \93massa delle illusioni, degli errori, delle osservazioni imprecise, dei problemi errati inseguiti dalle menti deboli, delle scoperte dei ciarlatani e degli scienziati celebrati nelle quarte pagine dei giornali\94 (gli stessi che, più tardi, saranno promossi alle \93terze\94 pagine) (pag. 55). A questo pacchetto di errori ne aggiunge altri due: il dualismo cartesiano (pag. 62) e la distinzione \96 messa a carico di Galilei \96 tra \93qualità primarie\94 (misurabili) e \93qualità secondarie\94 (non misurabili), ovvero fra il quantitativo e il qualitativo, con conseguente trascuratezza riservata al secondo (pag. 301). L'errore imputato da Ceccato alla \93filosofia del conoscere\94 è di ben altra portata e la sua critica della scienza è direttamente correlata agli influssi filosofici subìti. 5. Assicura che \93la scienza della conoscenza di noi stessi sarà l'opera dell'avvenire\94 (pag. 73). 6. \93L'anima e il corpo\94 sarebbero \93creazione dei nostri metodi di osservazione\94 (pag. 79). 7. E anche \93l'eterogeneità dell'organismo in realtà è un prodotto dell'astrazione dell'osservatore\94 (pag. 122). 8. Occorre tener presenti sia i dati forniti dall' \93introspezione\94 che dallo \93studio del modo di comportarsi dell'uomo, perché proverrebbero da due \93tecniche\94 che \93hanno ugualmente diritto alla nostra fiducia\94 (pag. 139). Ceccato, notoriamente, non concede \93fiducia\94 né all'una né all'altra. 9. L'intelligenza sarebbe la \93facoltà di comprendere le relazioni fra le cose\94 (pag. 139). A Ceccato la definizione è sempre piaciuta, ma ne ha anche ricondotto la paternità a Charles Spearman (1863-1945). 10. \93L'attenzione incompleta e lenta\94 impedirebbe \93lo sviluppo dello spirito\94 (pag. 140). b) 1. Per Carrel, \93l'espressione delle attività spirituali e mentali si manifesta con particolari modi di comportarsi, e atteggiamenti e atti verso i nostri simili\94. Solo in tal modo, infatti, potremmo \93indirettamente studiare i sentimenti morali, estetici e mistici\94 (pag. 60). 2. Fuori dal \93dominio dell'intelletto, nulla si può definire chiaramente\94, ma ciò non significa affatto \93inesistenza di attività umane trascendenti quelle puramente intellettive\94 (pag. 60). 3. Nel futuro della conoscenza umana \93conterà tutto ciò che si può osservare\94 (pag. 75). 4. \93Il senso della bellezza esiste nella nostra coscienza solo allo stato potenziale\94 (pag. 151). 5. \93Probabilmente è, a livello della sostanza grigia, che lo spirito, secondo l'espressione di Bergson, si inserisce nella materia\94 (pag. 160). 6. \93Per il sapiente moderno come per Platone le idee\94 sarebbero \93la sola realtà\94. E, chiarendo, \93questa realtà astratta ci fa conoscere il concreto; il generale ci fa conoscere il particolare\94 (pag. 258). 7. La psicologia avrebbe bisogno \93dei metodi e dei concetti della fisiologia, dell'anatomia, della meccanica, della chimica, della chimico-fisica, della fisica e delle matematiche\94 (pag. 313). c) 1. Aumenterebbe il numero delle malattie mentali (pag. 39). Nei soli Stati Uniti d'America \93parecchie centinaia di migliaia di individui non ricoverati\94 sarebbero \93affetti da psiconeurosi\94 (pag. 173). 2. L'umanità, oggi, dovrebbe \93considerare sé stessa e la sua incapacità morale e intellettuale\94 (pag. 61). 3. Le \93razze umane\94 non sarebbero \93pure\94 (pag. 68). 4. Il Rinascimento sarebbe stato tutto un \93fiorire dell'intelligenza, dell'intuizione scientifica, dell'immaginazione estetica\94 e anche \93della forza fisica, dell'audacia e dello spirito d'avventura\94 (pag. 69). 5, \93In generale, gli individui più sensibili, più vivaci e più resistenti\94 non sarebbero \93alti\94. A sostegno cita il fatto che \93Mussolini è di statura media e Napoleone era piccolo\94 (pag. 81). 6. \93Noi ci modifichiamo a seconda dei cambiamenti di qualità e di quantità delle materie che ci alimentano\94 (pag. 116). 7. \93Tra gli eunuchi non vi sono mai stati né grandi filosofi, né grandi scienziati e neppure grandi criminali\94, perché \93il testicolo genera l'audacia, la violenza, la brutalità\94 (pag. 117). 8. \93La razza bianca, che ha costruito la nostra civiltà, è la più forte di tutte le razze\94, anche perché può vantare la \93perfezione del (proprio) sistema nervoso\94 (pag. 127). 9. \93Gli uomini civili\94 avrebbero \93bisogno di un sistema di vita che imponga a ciascuno uno sforzo costante, una disciplina fisiologica e morale e delle privazioni\94. Come direbbe Vasco Rossi (che vuole \93una vita spericolata\94, credendo e facendo credere di essere dall'altra parte della barricata), poi, \93il 'vivere pericolosamente' mussoliniano non è solo un altissimo precetto morale, ma anche una necessità biologica, per le razze elette\94 (pag. 129). 10. La \93maggior parte degli individui\94 sarebbe caratterizzata da \93debolezza mentale\94 (pag. 139). Gli atleti, poi, \93sono di solito poco intelligenti\94 (pag. 140). 11. \93Un vero capo\94 non avrebbe bisogno \93né di prove psicologiche né di prove materiali per scegliere i suoi subordinati\94 . Ad esempio: \93un buon giudice sa, senza perdersi in dettagli di argomenti legali e talora anche appoggiandosi su false considerazioni, dare un giudizio giusto\94 (pag. 141). 12. \93L'osservazione scientifica\94 ci darebbe \93la certezza dell'esistenza della chiaroveggenza e della telepatìa\94. \93L'aspetto poco razionale\94 della \93metapsichica\94 deriverebbe \93dal fatto che è poco conosciuta\94 (pagg. 142-143, anche in nota 1). \93E' certo\94, comunque, che \93il pensiero può comunicare direttamente da un essere umano a un altro\94 (pag. 144). La \93predizione del futuro\94, inoltre, sarebbe suffragata da \93prove\94 (pag. 286). 13. \93Nell'essere civilizzato la volontà e l'intelligenza\94 sarebbero \93una sola ed identica funzione, che dà ai nostri atti il valore morale\94 (pag. 146). 14. Ai suoi tempi \93monumenti grandiosi\94 avrebbero \93trasformato l'aspetto delle città\94 (pag. 171). 15. \93La passione della conquista\94 avrebbe \93portato Pasteur al rinnovamento della medicina, Mussolini alla costruzione di una grande nazione, Einstein alla creazione di un universo\94 (pag. 242). 16. \93Cesare, Napoleone, Mussolini, tutti i grandi condottieri di popoli, si elevano sopra la statura umana (ehm, cfr. c, 5) e trascinano folle immense nella rete della loro volontà e delle loro idee\94 (pag. 283). 17. L'omosessualità dipenderebbe dalla \93degenerazione della razza\94 (pag. 289). 18. \93il principio democratico\94 avrebbe \93contribuito all'indebolimento della civiltà\94, impedendo lo sviluppo dei migliori\94 (pag. 293). 19. \93La salvezza\94 si potrebbe trovare \93solo nell'abbandono di tutte le dottrine, nell'accettare in pieno i dati dell'osservazione obiettiva\94 (pag. 305). 20. \93Un grande progresso\94 sarebbe stato \93realizzato in Italia da Nicola Pende, col suo Istituto Biotipologico per il miglioramento fisico, morale ed intellettuale dell'individuo\94 (pag. 311). 21. La soluzione dei problemi dell'umanità può venire solo dal tentativo di conferirle \93una specie di anima, di cervello immortale\94, da \93istituzioni\94 nuove, da un \93focolaio di pensiero composto di un numero piccolissimo di uomini\94 (pag. 314). 22. \93Anche fra i proletari\94, si troverebbero \93soggetti capaci di alto sviluppo, ma è un fenomeno raro\94, perché \93la divisione della popolazione di un paese in diverse classi non è l'effetto del caso e delle concezioni sociali, ma ha una profonda base biologica\94 (pag. 321). 23. \93I popoli moderni si potranno salvare sviluppando i forti, non proteggendo i deboli\94 (pag. 321). 24. \93L'eugenica\94 \96 che per \93essere utile\94 dovrebbe essere \93volontaria\94 - è indispensabile alla perpetuazione di una classe scelta\94. Pertanto, \93forse sarà anche necessario imporre ai candidati al matrimonio un esame medico\94 (pagg. 322-323). 25. \93Le donne debbono ricevere una educazione elevata solo per poter fare dei propri figli degli esseri superiori, e non per essere dottoresse, avvocatesse o professoresse\94 (pag. 325). 26. Con l'eugenica, beninteso, potremo \93far scomparire la pazzia e la delinquenza\94, ma, nel frattempo, \93la punizione dei criminali meno dannosi colla fustigazione, o con qualche sistema più scientifico, seguito da un breve soggiorno all'ospedale basterebbe probabilmente ad assicurare l'ordine\94 (pag. 341). Alexis Carrel (1873-1944) era un medico-biologo francese con una preoccupante propensione alla chirurgia. Nel 1906 lasciò Lione per Chicago, dove andò a diffondere il suo verbo su come suturare le arterie e dove ammazzò un numero imprecisato di animali su cui si esercitava ad espiantare e ad impiantare organi. Il 1912 fu il suo anno fortunato: gli diedero il Nobel e fu vittima dello scherzo di un suo sottoposto al quale era antipatico. La sua fortuna consistette nel non accorgersene. Alcune cellule tratte da un frammento di miocardio di pollo presero a pulsare al ritmo del battito cardiaco e non smisero fino al 1939 \96 anno in cui, forse, la truffa venne scoperta e, di certo, Carrel tornò in Francia. Un'analisi della vicenda è condotta da Federico Di Trocchio in Le bugie della scienza (Milano 1993, pagg. 228-234). In Francia, Carrel ci tornò a ragion veduta, perché nel governo di Vichy \96 dove gli viene offerto un ruolo rilevante - vedeva finalmente la realizzazione dei suoi foschi ideali. Non occorrono grandi studi filologici per rendersi conto che Carrel non ha nulla a che fare né con l'operazionismo di Bridgman, né, tantomeno, con la metodologia operativa di Ceccato. La sua è imbecillità nazifascista genuina, fiorita su basi epistemologiche il cui tratto più nitido è la superfluità (cfr. c, 19). Piacerebbe a Nolte ed ai teorici del \93tutt-un-fascio\94 sapere che Carrel, in due affermazioni, esterna una modalità percettiva delle cose del mondo ai suoi tempi su cui si è riflettuto poco e male. La prima è allorché parla della possibilità di educare convenientemente adulti e bambini e dove circoscrive questa possibilità a tre Paesi: nell'ordine, l'Italia, la Germania e la Russia (pag. 309). La seconda è allorché ipotizza che alla \93costruzione di una classe dirigente intraprendente\94 potrebbero venire utili, fra gli altri, anche i discendenti \93degli eroi della Rivoluzione francese o russa\94 (pag. 320). Tuttavia, al di fuori della consapevolezza di Mounin (che, nel 1972, quando ha scritto il suo libro, non poteva aver letto ciò che non era ancora stato pubblicato), qualche tratto in comune Carrel e Ceccato ce l'hanno davvero. Mi riferisco alle considerazioni sulle oligarchie intellettuali e sui \93saperi esoterici\94 (telepatia, pranoterapia e compagnia bella). Le prime, come è noto, vengono da molto lontano e basterebbe dare un'occhiata al Kant del Progetto per una pace perpetua per constatarne un'articolazione saggiamente organizzata (cfr. anche il mio La remissività ideologica dell'assiomatica kantiana, in \93Nuovo 75 \96 Metodologia Scienze Sociali Tecnica Operativa\94, 6, 1971). Ceccato allude a soluzioni del genere in un paio di passi della sua Intervista sulla scuola con Gianclaudio Lopez (cfr. S. Ceccato, Mille tipi di bello, Roma 1994, nonché il mio antidoto Primi segnali di ciò che ci aspetta: la metodologia operativa asetticizzata, zuccherata e tradotta per le destre nazionali, in WP, 69, 1995). Le seconde, nel nostro secolo, sembrano correlate, con il filo doppio dell'indulgenza e della malcelata fiducia, al pragmatismo: da William James a Papini e Prezzolini, fino alla versione più opportunista dei divulgatori, come Mussolini o Carrel. In realtà sono l'esito ovvio dell'approdo scettico. E stabilire in che misura Ceccato volesse esentarsi dallo scetticismo non è compito semplicissimo. P.s.: Avevo promesso un cenno alle imprese del traduttore. Laddove Carrel parla del rapporto tra mutamento umano e sua alimentazione, il \93Dott. V. Porta\94 si affretta ad aggiungere in nota che \93l'Autore pare esagerare\94. Preoccupato delle risorse autarchiche a disposizione della popolazione italiana, si sente in dovere di compiere una lunga digressione sulle virtù della dieta vegetariana e della capacità di adattamento della \93razza bianca\94 \96 capacità di adattamento da cui proverrebbe la sua \93supremazia\94 (pag. 106). Laddove, poi, Carrel dice che l'uomo del Rinascimento \96 \93che passava la sua vita a combattere, che affrontava le intemperie e i pericoli, che s'entusiasmava per le scoperte di Galileo come per i capolavori di Leonardo e di Michelangelo\94 \96 \93aveva un aspetto naturalmente assai diverso da quello dell'uomo moderno\94, per non ingenerare equivoci con la stirpe italica, trova il coraggio di specificare, in nota, \93Americano\94, con il punto esclamativo (pag. 82). Stessa sorte tocca ad un brano sugli \93uomini d'oggi\94, che sarebbero, secondo Carrel, \93scontenti, emotivi, fiacchi, lascivi e violenti\94, senza \93senso morale, né estetico, né sentimento religioso\94 (pag. 157). In nota, chiarisce che gli \93uomini d'oggi\94 di cui si parla sono \93U.S.A.!\94. A dimostrazione del fatto che, durante il fascismo, nulla è mai abbastanza fascista. ![]() ![]() Carlo Oliva Non è del tutto priva d'interesse neanche per noi la polemica che ha opposto, nella terza pagina del Corriere della sera (26 e 31 gennaio, 4 febbraio) uno scrittore come Giovanni Mariotti e Guido Paduano, filologo di vaglia e recente traduttore dell'Iliade di Omero Al Mariotti, che prende in considerazione l'incipit del poema (perché, sarà un caso, ma queste discussioni, come quelle delle tesi di laurea, hanno una spiccata predilezione per le prime pagine dei testi in oggetto) non piace come il Paduano ha tradotto gli epiteti con cui l'originale caratterizza i protagonisti della celebre lite. Agamennone, ánax andrôn, come a dire "signore di uomini" non dovrebbe diventare un "capo di eserciti", e Achille, che è semplicemente dîos ("divino"), divino dovrebbe restare, e non ridursi a un semplice "nobile", come traduce il Paduano. Questo per non perdere, in italiano, l'opposizione che Omero (o chi per lui) avrebbe voluto instaurare tra la sfera puramente umana di Agamennone ("signore di uomini" appunto) e quella di Achille, che è figlio di una dea e appartiene quindi a un ambito in un certo senso superiore. Per concludere che "non sempre una traduzione può essere rigorosamente fedele, ma deve esserlo ogni volta che può". Il Paduano, seccatissimo, risponde che quell'opposizione se l'è inventata il suo interlocutore, che il testo con ánax andrôn designa il capo di una "comunità militare organizzata", per cui "capo di eserciti" va benissimo e che, soprattutto, dîos nei poemi omerici è usato con tanta liberalità e attribuito a tante di quelle persone, porcari compresi, che proprio "divino" non può più significare. Dopo di che perde un pochino le staffe e accusa l'incolpevole Mariotti di indebita sacralizzazione del mondo classico, del vizio idealista di voler vedere dovunque "riverberi di un altro universo", che, per un autore che nella sua opera narrativa si dedica soprattutto all'operazione inversa, vale a dire alla desacralizzazione dei testi religiosi tradizionali, è un insulto sanguinoso. Ma questo non c'entra. Non ho i titoli per metter becco in un dibattito di livello così alto, anche perché appartengo a una generazione che Omero in italiano ha dovuto leggerselo negli endecasillabi del Monti, per cui i due litiganti per me restano indelebilmente "il re de' prodi Atride e il divo Achille" (in cui "prodi" è sicuramente un'aggiunta del traduttore, ma non sta affatto male). Soprattutto, sospetto che buona parte delle proposte del Paduano nascano dal fatto che, essendo comparse negli ultimi due o tre anni, per nessun'altra ragione che quella editoriale, non meno di quattro nuove traduzioni omeriche, un certo sforzo per differenziarsi dai colleghi avrà dovuto farlo comunque. In ogni caso, sul piano filologico le sue osservazioni sono ineccepibili. Il Mariotti gli risponderà che chi definisce "divina" Greta Garbo non intende affatto sacralizzarla, ma postula comunque la sua appartenenza a una sfera superiore, ma a questo punto il dibattito finisce nel campo dell'opinabile e tanto vale smetterla lì. Mi permetterò solo un paio di osservazioni marginali. In primo luogo, l'invito a ricorrere, quando si può, alla traduzione letterale è sensatissimo, ma non tiene conto del fatto che tra due lingue non esiste mai quella perfetta biunivocità di vocabolario e struttura che renderebbe la traduzione un'operazione puramente meccanica. Le lingue (ne abbiamo parlato anche a Rimini) si differenziano l'una dall'altra in via diacronica, mediante un accumulo di innovazioni che una parte della comunità parlante accetta e l'altra no: se diamo per buona l'ipotesi che tutte quelle innovazioni abbiano un sia pur minimo significato semantico (ed è difficile, francamente, pensare che ne abbiano un altro) dovremo concludere che due lingue, come dire, biunivoche, non possono esistere. Se fossero tali questo vorrebbe dire che non si sono differenziate, e, quindi, che sono la stessa lingua (tra parentesi: sospetto assaiche questa ovvia verità, se non avesse natura contradditoria, rappresenterebbe l'unico elemento "scientifico" cui appellarsi in difesa dell'ipotesi Sapir-Whorf). Quanto alla volontà opposta di cercare il valore semantico dei termini da tradurre nella globalità del sistema in cui "funzionano" (per cui Agamennone è un "capo di eserciti" non perché ánax andrôn designi di regola i capi militari, ma perché in tutta l'Iliade è descritto come tale) rischia un po', anche se forse non in questo caso, di far dire al testo più di quello che dice. E poi, soprattutto, c'è un equivoco che forse varrebbe pena di chiarire. Quando diciamo, per esempio, che in greco (o in turco, in islandese o in fiammingo, fa lo stesso) la tal parola vuol dire questo e non quello (che so, che dîos vuol dire "divino" e non "nobile") ricorriamo a una volgarissima, sia pur necessaria, semplificazione. Perché il greco (il turco, l'islandese, il fiammingo...) naturalmente, non esistono: esiste una quantità di testi che tramandano l'eco di certe operazioni degli individui parlanti, operazioni che, per vari motivi, abbiamo deciso di attribuire a una lingua comune (che nulla ci impedirebbe, in caso di necessità, di scomporre in altre realtà, come i dialetti storici del greco letterario, o di ascrivere a entità superiori che la comprendano. E i parlanti, tutti i parlanti, non prendono le parole così come sono dai vocabolario e le tramandano immutate ai posteri. Di solito, con grande dolore dei puristi, si riservano ogni libertà di trasformarle, di cambiargli significato, di spostarle da un ambito all'altro, facendone oggetto di metaforizzazioni e categorizzazioni sempre nuove. In sostanza, è vero che Achille è divino perché è figlio di una dea, ma è anche vero che nell'Iliade è difficile trovare qualcuno che non vanti parentele divine (può esibirne anche Agamennone, credo), per cui il termine o vuol dire qualcosa d'altro (e allora potrà caratterizzare in un certo senso colui a cui si riferisce) o è tanto poco caraterizzato esso stesso da non avere praticamente significato (che è appunto quel che si intende di solito dicendo che si tratta di un "termine formulare"). Quel qualcosa d'altro, d'altronde, è espresso da una parola che, indicando ab origine (o, se non ab origine, almeno nella fase più antica di cui abbiamo testimonianza) proprio il "divino", nel senso dell'appartanenza a una sfera soprannaturale, e non in quello della perspicuità sociale, non si può laicizzare al cento per cento, ma un qualche residuo di divinità se lo trascinerà sempre dietro. Per questo la definizione odissiaca di Eumeo come "divino porcaro", con tutto il rispetto dovuto agli operatori suinicoli, ha sempre colpito come incongrua i lettori antichi e moderni e ha fatto scorrere fiumi d'inchiostro per giustificarla. Il traduttore dovrebbe essere in grado di indicare contemporaneamente quello che il destinatario originario dei messaggi capiva senza sforzo, compreso il "prima" e il "dopo" dei termini impiegati; dovrebbe essere capace di esprimere e al tempo stesso di negare il valore originario e le successive trasformazioni delle parole. Le parole non hanno soltanto una storia, nel senso che si possono confrontare con altre parole, ma hanno anche una dinamica, diciamo così, interna, che riflette il dinamismo delle operazioni mentali che incessantemente le producono. Il rischio di chi non se ne rende conto è quello di finire prigioniero delle parole stesse che usa, che è un modo come l'altro per perdere un brandello della propria libertà. Vita da bestia, quella del traduttore. ![]() ![]() La commemorazione di Silvio Ceccato prevista per il 28 marzo 1998, presso la Biblioteca Civica del Comune di Montecchio Maggiore, è stata spostata al 4 Aprile 1998 alle ore 18. Il resoconto concernente la relazione di Ceccato e gli interventi successivi al Wiener Memorial Meeting del 1965 è stato inviato da Vittorio Somenzi. ![]() |